il nuovo numero di nostos è stato pubblicato oggi

questo è il sommario:

http://rivista.ernestodemartino.it/index.php/nostos/issue/download/7/9
il nuovo numero di nostos è stato pubblicato oggi
questo è il sommario:
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Ce classique de l’anthropologue italien, aujourd’hui réédité, appelle à prendre au sérieux l’efficacité de la magie. Qu’on y croie ou non.
Par Nicolas Weill
Antropologia. Ricordo della erede degli insegnamenti di Ernesto De Martino
Alias del 02.10.2021
I personaggi che qui si incontrano – medici e sacerdoti, malati e miracolati, magnetizzatori e sonnambule, spiritisti e medium, isteriche e fantasmi… – e le loro relazioni, disegnano un Ottocento che prima di Clara Gallini non era stato indagato da una prospettiva antropologica.
Una prospettiva che analizzando la dimensione culturale del magnetismo e dello spiritismo, come delle guarigioni miracolose, mette in luce, tra l’altro, il dinamismo culturale presente nella società di classe e pone interrogativi ancora attuali sulla crisi del modello cartesiano di ragione.» È un breve frammento, tratto dalla prefazione di Adelina Talamonti del saggio Chiaroscuri. Storie di fantasmi, miracoli e gran dottori (Kurumuny Edizioni, 2021), che celebra i novant’anni dalla nascita dell’antropologa Clara Gallini (Crema, 19 giugno 1931 – Roma, 21 gennaio 2017).
Saggi scelti
Il volume è una raccolta postuma di saggi scelti e organizzati
completamente da lei, figura cardine nel panorama degli studi
antropologici in Italia e non solo, considerata tra le principali
interpreti e custodi del pensiero di Ernesto de Martino (1908/1965). Chiaroscuri,
che si fregia dell’introduzione di Clara Gallini ed è arricchito
nell’Appendice dai testi di Ernesto de Martino e dello psicanalista
Emilio Servadio (1904/1995), ci porta in tutta Europa attraverso le
storie di sonnambule e magnetisti, spiritisti e fantasmi, miracolati e
medici.
In tal voyage, compiuto con rigore e metodo scientifico, la Gallini naviga da nord a sud facendo tappa in luoghi-simbolo di misteri studiati dall’occultismo come, ad esempio, le case infestate della Torino di inizio Novecento e quelle di fine Ottocento a Napoli, dove la famosa medium Eusapia Paladino (1854/1918) attira sia pellegrini che scienziati, quale il noto antropologo Cesare Lombroso (1835/1909).
Svariati capitoli, poi, sono dedicati a Lourdes, luogo di miracoli e medicalizzazione del sacro. Ella rileva che «nel loro complesso i nostri episodi smentiscono quella immagine, rigida ed esclusiva, di un Mezzogiorno che per tradizione concentrerebbe nei suoi territori ogni «magia»: al contrario, la troveremo anche altrove, nelle moderne città d’Europa, dove anche sarebbe stata presa in seria considerazione «scientifica», oltre che «religiosa», da vari medici e prelati. Le storie che raccolgo qui sono ristampate da vecchi articoli, di venti, trent’anni fa, ma non mi vergogno di dire che la loro problematica è sempre più attuale, in tempi come questi, che danno sempre più spazio all’avanzata dell’«irrazionale», non solo nei diversi culti religiosi.
L’occulto
Di recente scrittura, e inedito, è invece l’ultimo capitolo, che cerca
di interrogarsi su cosa sia ciò che definiamo «altro» dalla ragione e
che ormai tutti chiamiamo col nome «occulto». Più in generale, potremmo
ritrovarvi l’attualità di quelle domande su che cosa mai sia quel lato
oscuro degli uomini e delle cose, che ancor oggi continua a intrigarci».
Tra gli studiosi che rifiutano ogni semplice classificazione e incasellamento e modellano i confini con la singolarità della loro intelligenza, c’è indubbiamente anche la Gallini. Come antropologa si è addentrata nei più compositi ambiti: dal folklore sardo all’Ottocento italiano, dal razzismo alla rete, fino al ritorno del simbolismo della croce. Nell’intensa vita di donna e raffinata studiosa, che ha viaggiato molto attraversando mondi e tempi differenti per trarre testimonianze ed esaminare atteggiamenti di popoli e civiltà, ha difatti costantemente propeso per lo studio dei labirinti. Laureatasi nel 1954 alla Statale di Milano in Lettere, frequenta poi a Roma la Scuola di perfezionamento in Storia delle Religioni.
Qui studia con figure del calibro di Angelo Brelich (1913/1977) e Raffaele Pettazzoni (1883/1959). Tuttavia, l’incontro intellettuale, che le cambierà la vita, è quello con Ernesto de Martino alla fine degli anni 50, conosciuto durante il perfezionamento a Roma. Diviene assistente volontaria seguendolo in Sardegna e, poi, alla sua morte, titolare della cattedra di Storia delle Religioni a Cagliari fino al 1978. Anno che bolla il suo orientamento scientifico, storicistico-marxista, di cui è corresponsabile l’insularità arcaizzante di quella «Sardegna come un’infanzia», per dirla con Elio Vittorini (1908/1966), dove Cagliari raffigura in quegli anni l’incrocio o la capitale dell’antropologia, con i nomi di Alberto Mario Cirese (1921/2011), Giulio Angioni (1939/2017) e Pietro Clemente. Gallini svolge un’acuta indagine sul campo, fornendo ragguardevoli monografie sul folklore sardo.
Dalle pagine demartiniane del Mondo magico assentirà «che lì dentro c’era qualcosa di forte, dirompente, un pensiero vivo e attivo, che coniugava la nostra vita con quella degli altri». Tra le opere si citano: I rituali dell’argia (1967), Feste lunghe di Sardegna (1971), Dono e malocchio (1973), La sonnambula meravigliosa (1983), Il miracolo e la sua prova. Un etnologo a Lourdes (1988), Giochi pericolosi (2002), Cyberspiders (2004), Il ritorno delle croci (2009) fino a Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia (2016), una meditazione autobiografica terminale su sé stessa.
Nel 1978 lascia la Sardegna per insegnare Antropologia Culturale, prima all’Istituto Orientale di Napoli e successivamente a La Sapienza di Roma. Nel 1977 è curatrice dell’edizione postuma de La fine del mondo, fondamentale opera che de Martino aveva lasciato interrotta e che resta a tutt’oggi uno dei suoi lavori essenziali.
Internet
Dagli anni 90 in poi, inaugura nuovi campi di studio. È osservatrice
originale e critica della globalizzazione e dei mutamenti culturali che
essa arreca. È studiosa della diffusione del razzismo nell’immaginario
collettivo, delle reti relazionali connesse a internet, dei dibattiti
collegati ai conflitti dei simboli e, in modo particolare, all’impiego
pubblico della croce. Nel suo ultimo imponente libro, Incidenti di
percorso.
Antropologia di una malattia (2016), ha sfidato con forza, lucidità e sarcasmo il viaggio più arduo per un essere umano: il viaggio dentro sé stessi. Nell’intrico della propria psiche e della propria anima; del proprio corpo malato, ma efficiente per serbare sempre nuovi stupori e creazioni. Attualmente lo si può intuire come un lascito spirituale, influenzato da una coerente e critica laicità, di una donna che ha studiato ininterrottamente la religione. Riservata e modesta, la Gallini è sempre stata distante dalla scena mass mediale e dai giochi di potere accademici. L’inestricabile attività, immensa e composita, è una sostanziosa eredità intellettuale che dovremmo accuratamente studiare per comprendere fino in fondo la Nostra e far sì che non venga mai dimenticata.
con qualche ritardo rispetto al consueto calendario annuale, esce il numero di nostos del 2020.
Ecco l’indice:
http://rivista.ernestodemartino.it/index.php/nostos/issue/view/6/showToc
Buona lettura
Rivoluzioni culturali. Due importanti novità nella attuale riedizione di «Morte e pianto rituale», che torna da Einaudi: Marcello Massenzio nega l’appartenenza del saggio a una trilogia meridionalista; e riconduce l’«Atlante figurato» al modello «Mnemosyne» di Aby Warburg
di Fabio Dei, da Alias del 4 aprile 2021
Al culmine di una stagione che aveva fatto conoscere Ernesto de Martino per le sue «spedizioni etnografiche» in Lucania e in Puglia e per il suo pervicace impegno nel dibattito sulla questione meridionale, l’uscita nel 1958 di Morte e pianto rituale Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (ora riedito da Einaudi, PBE, a cura di Marcello Massenzio, pp. LXXVIII-374, € 29,00) si prestò a venire letto soprattutto come uno studio sulla tradizione popolare del lamento funebre nel Mezzogiorno d’Italia. E così lo si sarebbe considerato per decenni, con ciò sottovalutando sia l’ampia ricerca storico-religiosa e comparativa sia l’originale impianto teorico-filosofico che lo sostengono. A breve distanza di tempo sarebbero apparse anche le altre due monografie legate a quelle ricerche, Sud e magia (1959) e La terra del rimorso (1961), tanto che venne naturale ai commentatori di allora leggere quei volumi come una compatta «trilogia».
Quando Morte e pianto rituale vinse il premio Viareggio per la saggistica, un commento ne descrisse l’autore come «il professore bizzarro che parla con i morti». Non poteva darsi definizione più infelice. L’allusione a una vena irrazionalista fraintende completamente il senso del libro, che è invece una riflessione di amplissimo respiro sulle strategie con cui la cultura umana lotta per dare continuità alla vita, per allontanarsi dalle tombe e trascendere nel valore l’abisso esistenziale spalancato dalla prospettiva della fine: dunque per tenersi lontana dall’abbraccio della morte.
Lucania, terra del pianto
Oggi ci è più chiaro
quanto de Martino faticasse a far comprendere il senso più profondo del
proprio lavoro, il lavoro di un vigoroso umanesimo storicista che
esplora i confini della ragione umana, spingendosi verso quelle soglie
in cui essa minaccia di perdersi, e – insieme al senso del sé –
smarrisce il senso del mondo.
Lo scopo di questa esplorazione era
riconoscere gli strumenti sociali e culturali che fanno da argine al
caos, al dissolvimento dell’ordine del mondo e insieme della «presenza»,
vale a dire dell’autonomia esistenziale e della capacità di azione
«storica» dell’individuo. Ma il suo saggiare gli spazi liminali, il suo
esplorare gli inferi si prestava a venire scambiato per fascinazione
irrazionalista, e così venne interpretato anche dai principali indirizzi
della cultura italiana del tempo.
I crociani gli rimproveravano il rischio di storicizzare le categorie, ovvero di relativizzare quell’unità del soggetto che è invece la base universale e necessaria su cui ogni storia possibile si articola; i marxisti apprezzavano l’impegno meridionalista di de Martino, ma guardavano con un certo sospetto l’eccessiva attenzione alla dimensione magica e arcaica del mondo contadino.
Certo, Morte e pianto rituale era anche un’etnografia della cultura subalterna del Mezzogiorno. L’ampio capitolo sul lamento funebre lucano gioca un ruolo cruciale nel libro, e certamente la documentazione etnografica delle forme del lutto fra i contadini lucani e pugliesi, soprattutto del pianto ritualizzato delle prefiche, era stato il punto di partenza del percorso di de Martino.
Oltre il verbo
La sua frequentazione
dell’etnografia gli consentiva di rendersi conto di aspetti delle
pratiche luttuose che non sarebbero potuti emergere dalla sola
documentazione storico-religiosa, sia scritta che iconografica: ad
esempio il tipo di partecipazione emotiva, le stereotipie dei movimenti
del corpo e delle modulazioni vocali delle lamentatrici, e al tempo
stesso la loro capacità di adattare i moduli tradizionali alle
situazioni specifiche, individualizzandoli e riportandone al loro
interno la storicità.
Erano questi i materiali dai quali de Martino traeva la parte più ricca e innovativa della sua analisi, e che gli permisero di comprendere come la logica della ritualità funebre poggi su un meccanismo mimetico: le pratiche rituali imitano la caduta nella disperazione e nel furore più totali, fingono di seguire il defunto e di non poterlo «lasciar andare». E tuttavia questa caduta o discesa agli inferi è controllata: la mediazione dei dispositivi mitico-rituali consente di tornare in superficie, di riguadagnare l’ordine della vita collettiva e la razionalità dell’agire cosciente.
Restituendo alla storia i soggetti che ne sono colpiti e minacciati, questo dispositivo di destorificazione dell’evento luttuoso viene al tempo stesso proiettato da de Martino sui documenti folklorici dell’area mediterranea e quindi su quelli riguardanti le civiltà antiche e classiche. Ne emerge – ed è il corpo principale dell’opera – uno scenario culturale di grande ampiezza, fecondato teoricamente dall’intuizione esistenzialista della crisi e del riscatto della presenza minacciata dal vuoto della morte.
Infine, il libro approda all’incontro di questo scenario con la visione cristiana del tempo e della morte – esemplificata dalle parole di Agostino di fronte alla perdita della madre, parole dominate dalla convinzione che solo di una morte apparente si tratta e le lacrime vanno dunque trattenute. La prospettiva cristiana (la «nuova epoca» della morte rispetto a quella «antica») avrebbe alla fin fine vinto, ma al prezzo di riassorbire nelle proprie immagini e nei propri riti le tecniche pagane di controllo e reintegrazione del patimento – come nella figura «di compromesso» della Mater dolorosa, una figura fortemente sincretica.
Originariamente uscito da Einaudi, Morte e pianto rituale torna alla casa madre – dopo decenni di permanenza presso Bollati Boringhieri – in una nuova edizione curata da Marcello Massenzio, la cui ampia e densa introduzione propone almeno due importanti elementi di novità. Il primo è l’accento posto sull’apparato iconografico che accompagna il libro, sotto il titolo di «Atlante figurato del pianto».
De Martino accosta comparativamente immagini tratte dal folklore mediterraneo, dalle culture antiche e da quelle cristiane in quelle che non sono soltanto mere illustrazioni, ma materiali in cui emerge una descrizione e una comprensione dei riti, nella loro materialità corporea e gestuale, che sfuggirebbe alla pura verbalizzazione. Anche sulla scorta di suggestioni che gli provengono da Riccardo Di Donato, Georges Didi-Huberman e Carlo Ginzburg, Marcello Massenzio discute l’influenza del modello Mnemosyne di Aby Warburg sull’Atlante di de Martino. Quanto al secondo elemento della rottura interpretativa proposta da Massenzio, esso risiede appunto nel negare che Morte e pianto rituale sia il primo capitolo di una trilogia meridionalista. Se così lo si interpretò era grazie al contesto di quella stagione culturale, che di de Martino amava valorizzare il ruolo politico, da ricercatore di inchiesta e di denuncia, accostandolo magari a Carlo Levi o a Rocco Scotellaro, senza tuttavia comprendere il nucleo più profondo e unificante del suo pensiero, né il nesso inestricabile che egli aveva costruito fra la dimensione etnografica, quella storico-religiosa e quella filosofica.
Il mondo del possibile
Ritrovare i fili di
questo intreccio, troppo spesso separati nella realtà parcellizzata e
settoriale della ricerca contemporanea, è forse uno degli scopi che
meglio può motivare oggi la rilettura di queste pagine. Insieme al fatto
che, come tutti i grandi classici, Morte e pianto racconta qualcosa che
ci riguarda nella sua intramontabile attualità: non tanto l’abisso
della morte o la dissoluzione della presenza in sé, quanto la lotta
infaticabile che la cultura conduce contro di esse per permetterci di
rinnovare la nostra appartenenza a un mondo possibile.
https://ilmanifesto.it/ernesto-de-martino-nessun-irrazionalismo-nellabbraccio-con-la-morte/
Il 17 settembre scorso è venuto a mancare George Saunders, Professore di Anthropologia presso la Lawrence University (Wisconsin, USA). È stato uno dei soci fondatori dell’Associazione Internazionale E. De Martino e tra i primi a imporre all’attenzione della comunità scientifica extra-europea l’opera di de Martino, posta al centro di saggi che ne illuminano lo spessore teorico e la metodologia della ricerca, alla luce del confronto con orientamente ermeneutici d’impostazione diversa. Oltre che studioso dell’antropologia italiana, fin dagli anni Settanta George Saunders ha
scelto l’Italia come uno dei suoi terreni privilegiati di ricerca nell’ambito dell’antropologia religiosa.
Dallo studio dei movimenti protestanti pentecostali in Toscana è scaturito un libro importante, rimasto allo stadio di manoscritto inedito fino al 2010, quando è stato pubblicato, grazie all’interesse mostrato dai suoi amici e colleghi italiani, e con il contributo dell’Associazione Internazionale E. De Martino: Il linguaggio dello spirito. Il cuore e la mente nel protestantesimo
evangelico, Pacini Editore (traduzione di Adelina Talamonti).
Nella Postfazione di Vincenzo Padiglione è delineato un pregevole ritratto scientifico e umano di G. Saunders, che con la sua “pedagogia del confronto” – per usare una locuzione di Clara Gallini – ha contribuito ad ampliare profondamente gli orizzonti della ricerca nel settore delle tradizioni antropologiche locali.
I suoi scritti e taccuini di campo sono custoditi presso Smithsonian National Anthropological Archives (https://sova.si.edu/record/NAA.2006-09).
Fabio Dei
da Alias del 29/09/2019 (per gentile concessione di autore e editore)
Antropologia culturale. Una nuova selezione ragionata degli scritti confluiti in «La fine del mondo», che analizza le strategie rituali con cui le culture tradizionali tengono a bada la «crisi della presenza»: da Einaudi
La magia, il pianto rituale, il tarantismo nel Mezzogiorno d’Italia
avevano fornito a Ernesto De Martino gli argomenti attraverso i quali
aveva acquisito una consistente notorietà, quando al momento della sua
prematura scomparsa, nel 1965, stava scrivendo il libro che sarebbe
stato titolato La fine del mondo. Dopo le ricerche sul campo
degli anni Cinquanta, l’antropologo napoletano era tornato a concepire
un’opera di vasto impianto comparativo e filosofico (come il suo
precedente Mondo magico), il cui tema investiva le diverse
rappresentazioni culturali dell’apocalisse – dalla crisi dell’universo
addomesticato al crollo del Cosmo ordinato a favore di un Caos irrelato.
Erano almeno tre gli aspetti di questa «crisi radicale» del mondo, che
interessavano De Martino. In primo luogo la sua declinazione
psichiatrica, vale a dire il modo in cui il crollo del mondo (assieme e
parallelamente al crollo del Sé) si manifesta nei vissuti
psicopatologici, come quelli della schizofrenia. Inoltre, la presenza
del tema dell’apocalisse nei riti e nei simboli religiosi delle antiche
civiltà e delle culture etnologiche e popolari, dove la dissoluzione
dell’ordine viene evocata nel contesto di una dinamica che ne contempla
il superamento e la reintegrazione. Dunque, la crisi viene configurata
solo per essere risolta all’interno dello stesso impianto rituale.
Una lunga storia editoriale
Nella successione sistematica di una spaventosa discesa agli inferi, poi
del ritorno in superficie, che riapre la presenza a un mondo ordinato e
domestico, De Martino coglie la chiave della «efficacia simbolica»
delle strategie con cui le culture tradizionali proteggono o
«guariscono» i loro membri dalla «crisi della presenza», vale a dire dal
rischio radicale del non esserci. E per finire, il tema dell’apocalisse
è ricercato da De Martino nelle diverse declinazioni della cultura
contemporanea, per esempio i grandi movimenti ideologici, come quelli
anticoloniali, marxisti e religiosi, nei quali il mutamento storico si
configura come il collasso di un vecchio mondo cui segue la nascita di
uno radicalmente nuovo. Ma anche le rappresentazioni della letteratura e
dell’arte contemporanea vengono contemplate, e le inquietudini
dell’immaginario di massa, ad esempio le fantasie di quello che si
chiamava allora l’«olocausto nucleare», in grado di concepire, per la
prima volta nella storia, la distruzione del mondo e dell’umanità nella
sua interezza.
La storia editoriale del libro è lunga. Al momento della morte, De
Martino aveva pubblicato sul tema solo alcuni brevi saggi, e raccolto
una gran quantità di appunti e stesure preliminari, ancora molto
frammentarie. Un gruppo di suoi colleghi e allievi, guidati dallo
storico delle religioni Angelo Brelich, propose alla Einaudi di curarne
la pubblicazione, ma il lavoro si rivelò molto difficile, tanto che il
gruppo dei curatori si sciolse e il libro finì per essere pubblicato più
di dieci anni dopo, nel 1977, con l’editing della sola Clara Gallini.
Edizione affascinante ma complicata: Gallini scelse di pubblicare
integralmente le cartelle di lavoro dell’autore, inclusive di schede e
appunti di lettura, e di varie stesure alternative degli stessi passi,
consententendoci così di entrare nel laboratorio dell’antropologo; ma,
al tempo stesso, produceva un libro di dimensioni eccessive e privo di
una chiara struttura saggistica e argomentativa. Da usare come
repertorio di suggestioni, certo, ma arduo per un pubblico non
specialistico o per l’uso universitario. Poi, qualche anno fa, due
studiosi francesi, Giordana Charuty e Daniel Fabre, insieme all’italiano
Marcello Massenzio, lavorando a una traduzione francese del libro,
pensarono di proporre una diversa selezione ragionata dei materiali.
Tornati all’archivio di De Martino, ripristinarono innanzi tutto
l’indice originario dell’autore, riorganizzando poi attorno ad esso i
testi, tagliando doppioni e ridondanze, e corredando il tutto di
apparati e commenti molto utili a ricostruire l’interna coerenza del
testo e i suoi legami con il complesso del pensiero demartiniano.
Il libro uscì in Francia nel 2016, a quasi quarant’anni dalla sua prima
apparizione, ed è appunto in questa edizione che Einaudi propone oggi in
italiano La fine del mondo Contributo all’analisi delle apocalissi culturali
(a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, pp.
612, e 34,00). Per i lettori che non conoscevano ancora quest’opera, è
l’occasione per affrontarla in una forma decisamente più leggibile e
chiara della precedente; per gli altri – come nota lo stesso Massenzio
nella sua introduzione – la novità sta nella emergenza, ora più
compatta, dei principali nuclei teorici del pensiero di De Martino, che
erano andati inevitabilmente un po’ dispersi, nella prima edizione, in
mezzo al grande mare delle molte schede di lettura. In secondo luogo,
grazie anche agli apparati critici, è possibile storicizzare meglio il
testo, e comprenderne così il rilievo rispetto ai grandi indirizzi della
cultura europea del tempo.
Clara Gallini lo aveva interpretato, un po’ riduttivamente nel 1977, da
un lato come inspiegabile «ritorno a Croce», dall’altro come un riandare
ai temi dell’ontologia esistenzialista, in contrapposizione allo
storicismo marxista dominante in quegli anni. Oggi emerge invece con
maggior chiarezza l’originale e profonda sintesi teorica tentata da De
Martino – che non tradiva affatto lo storicismo ma gli conferiva semmai
maggior spessore innestandovi il tema della soggettivazione. Infine, ma
questo è un parere soggettivo, questa edizione lascia venire a galla
meglio la figura di un De Martino etnografo della società e della
cultura contemporanea. In tutte le sue opere precedenti, aveva messo a
fuoco la crisi della presenza e il suo riscatto o reintegrazione per
mezzo della cultura, riferendosi alla letteratura etnologica sui
«primitivi», poi al folklore magico-religioso delle «plebi rustiche del
Mezzogiorno», in ogni caso concentrandosi su società arcaiche o
premoderne. riscatto esistenziale e comunitario che è per lui la vera
costante della condizione umana.
La dinamica del riscatto
Fine del mondo, invece, gli interessa soprattutto riferire il
dispositivo crisi-reintegrazione alla «modernità», a una cultura
secolarizzata in cui riti e simboli abbandonano il lessico e
l’immaginario tradizionale, senza tuttavia cessare di esistere e di
funzionare. Sta qui la intramontabile attualità del libro – il suo
rapporto, cioè, con una realtà globale sempre più pervasa dalla
percezione della «crisi» e dal terrore di prospettive apocalittiche
(economiche, ecologiche, demografiche, politiche), insieme alla sua
capacità di indurre domande fondamentali: in che modo le culture odierne
configurano simbolicamente il rischio di un crollo del nostro mondo e
della nostra presenza? Lontano da ogni nostalgia della tradizione, De
Martino ci invita piuttosto a scrutare fino in fondo le complessità del
mondo contemporaneo, facendo emergere anche in esso quella dinamica del
riscatto esistenziale e comunitario che è per lui la vera costante della
condizione umana.
Condividi:
https://ilmanifesto.it/de-martino-riti-simbolici-per-controllare-lapocalisse/
11 giugno, ore 17,00
Sala conferenze Fondazione Basso
Matteo Aria, Michele Prospero, Mariuccia Salvati, Aldo Tortorella
discutono del volume
Coordina Alberto Olivetti
Il numero 1 del 2017 di Palaver, rivista pubblicata dalla Università del Salento, contiene due interessanti saggi su Ernesto de Martino:
Francesco Marano, Neorealismo, Ernesto de Martino, Arturo Zavattini
Enzo Vinicio Alliegro, I documenti d’archivio nella storiografia antropologica: problemi e prospettive. L’esempio dei materiali inediti di Ernesto de Martino nell’Archivio Centrale dello Stato e nell’Archivio Laterza