Profondamente radicato nel contesto storico in cui venne concepito, Il mondo magico va letto oggi alla luce dell’immane tragedia del secondo conflitto mondiale. De Martino si interroga sulle cause profonde della grande crisi dell’Occidente, di cui individua con sensibilità antropologica i germi nell’abbandono della tradizione storico-culturale di appartenenza: da qui l’urgenza di promuoverne una rinnovata consapevolezza critica. E proprio in relazione al conseguimento di tale obiettivo, che non potrebbe non riguardare anche il nostro presente, il confronto con il «culturalmente alieno» manifesta tutta la sua pregnanza.
L’incontro
si terrà in presenza e sulla piattaforma Zoom. Per iscrizioni alla
piattaforma Zoom inviare richiesta di adesione all’indirizzo newsletter@iisf.it. Sarà inoltre possibile seguire il seminario in streaming sul nostro canale YouTube
Laboratorio L’orizzonte formale del patire. La parola e l’immagine in Morte e pianto ritualedi Ernesto de Martino In collaborazione con Associazione Internazionale Ernesto de Martino A cura di Marcello Massenzio, Massimiliano Biscuso e Wolfgang Kaltenbacher
Lunedì 11 Rito e musica. Il ruolo dell’indagine etnografica in Lucania nell’economia dell’opera Marcello Massenzio (Associazione Internazionale Ernesto de Martino) Giovanni Pizza (Università di Perugia)
Martedì 12 Dalla parola all’ immagine. L’Atlante figurato del pianto Marcello Massenzio (Associazione Internazionale Ernesto de Martino) Attilio Scarpellini (saggista)
Mercoledì 13 La risoluzione culturale della morte nel mondo antico e nel cristianesimo Domenico Conte (Università di Napoli Federico II) Valerio Petrarca (Università di Napoli Federico II)
Giovedì 14 Crisi della presenza, crisi del cordoglio e destorificazione mitico-rituale Massimiliano Biscuso (IISF) Marcello Musté (Sapienza Università di Roma)
I personaggi che qui si incontrano – medici e sacerdoti,
malati e miracolati, magnetizzatori e sonnambule, spiritisti e medium,
isteriche e fantasmi… – e le loro relazioni, disegnano un Ottocento che
prima di Clara Gallini non era stato indagato da una prospettiva
antropologica.
Una prospettiva che analizzando la dimensione culturale del
magnetismo e dello spiritismo, come delle guarigioni miracolose, mette
in luce, tra l’altro, il dinamismo culturale presente nella società di
classe e pone interrogativi ancora attuali sulla crisi del modello
cartesiano di ragione.» È un breve frammento, tratto dalla prefazione di
Adelina Talamonti del saggio Chiaroscuri. Storie di fantasmi, miracoli e gran dottori
(Kurumuny Edizioni, 2021), che celebra i novant’anni dalla nascita
dell’antropologa Clara Gallini (Crema, 19 giugno 1931 – Roma, 21 gennaio
2017).
Saggi scelti
Il volume è una raccolta postuma di saggi scelti e organizzati
completamente da lei, figura cardine nel panorama degli studi
antropologici in Italia e non solo, considerata tra le principali
interpreti e custodi del pensiero di Ernesto de Martino (1908/1965). Chiaroscuri,
che si fregia dell’introduzione di Clara Gallini ed è arricchito
nell’Appendice dai testi di Ernesto de Martino e dello psicanalista
Emilio Servadio (1904/1995), ci porta in tutta Europa attraverso le
storie di sonnambule e magnetisti, spiritisti e fantasmi, miracolati e
medici.
In tal voyage, compiuto con rigore e metodo scientifico, la
Gallini naviga da nord a sud facendo tappa in luoghi-simbolo di misteri
studiati dall’occultismo come, ad esempio, le case infestate della
Torino di inizio Novecento e quelle di fine Ottocento a Napoli, dove la
famosa medium Eusapia Paladino (1854/1918) attira sia pellegrini che
scienziati, quale il noto antropologo Cesare Lombroso (1835/1909).
Svariati capitoli, poi, sono dedicati a Lourdes, luogo di miracoli e
medicalizzazione del sacro. Ella rileva che «nel loro complesso i nostri
episodi smentiscono quella immagine, rigida ed esclusiva, di un
Mezzogiorno che per tradizione concentrerebbe nei suoi territori ogni
«magia»: al contrario, la troveremo anche altrove, nelle moderne città
d’Europa, dove anche sarebbe stata presa in seria considerazione
«scientifica», oltre che «religiosa», da vari medici e prelati. Le
storie che raccolgo qui sono ristampate da vecchi articoli, di venti,
trent’anni fa, ma non mi vergogno di dire che la loro problematica è
sempre più attuale, in tempi come questi, che danno sempre più spazio
all’avanzata dell’«irrazionale», non solo nei diversi culti religiosi.
L’occulto
Di recente scrittura, e inedito, è invece l’ultimo capitolo, che cerca
di interrogarsi su cosa sia ciò che definiamo «altro» dalla ragione e
che ormai tutti chiamiamo col nome «occulto». Più in generale, potremmo
ritrovarvi l’attualità di quelle domande su che cosa mai sia quel lato
oscuro degli uomini e delle cose, che ancor oggi continua a intrigarci».
Tra gli studiosi che rifiutano ogni semplice classificazione e
incasellamento e modellano i confini con la singolarità della loro
intelligenza, c’è indubbiamente anche la Gallini. Come antropologa si è
addentrata nei più compositi ambiti: dal folklore sardo all’Ottocento
italiano, dal razzismo alla rete, fino al ritorno del simbolismo della
croce. Nell’intensa vita di donna e raffinata studiosa, che ha viaggiato
molto attraversando mondi e tempi differenti per trarre testimonianze
ed esaminare atteggiamenti di popoli e civiltà, ha difatti costantemente
propeso per lo studio dei labirinti. Laureatasi nel 1954 alla Statale
di Milano in Lettere, frequenta poi a Roma la Scuola di perfezionamento
in Storia delle Religioni.
Qui studia con figure del calibro di Angelo Brelich (1913/1977) e
Raffaele Pettazzoni (1883/1959). Tuttavia, l’incontro intellettuale, che
le cambierà la vita, è quello con Ernesto de Martino alla fine degli
anni 50, conosciuto durante il perfezionamento a Roma. Diviene
assistente volontaria seguendolo in Sardegna e, poi, alla sua morte,
titolare della cattedra di Storia delle Religioni a Cagliari fino al
1978. Anno che bolla il suo orientamento scientifico,
storicistico-marxista, di cui è corresponsabile l’insularità arcaizzante
di quella «Sardegna come un’infanzia», per dirla con Elio Vittorini
(1908/1966), dove Cagliari raffigura in quegli anni l’incrocio o la
capitale dell’antropologia, con i nomi di Alberto Mario Cirese
(1921/2011), Giulio Angioni (1939/2017) e Pietro Clemente. Gallini
svolge un’acuta indagine sul campo, fornendo ragguardevoli monografie
sul folklore sardo.
Dalle pagine demartiniane del Mondo magico assentirà «che lì dentro
c’era qualcosa di forte, dirompente, un pensiero vivo e attivo, che
coniugava la nostra vita con quella degli altri». Tra le opere si
citano: I rituali dell’argia (1967), Feste lunghe di Sardegna (1971), Dono e malocchio (1973), La sonnambula meravigliosa (1983), Il miracolo e la sua prova. Un etnologo a Lourdes (1988), Giochi pericolosi (2002), Cyberspiders (2004), Il ritorno delle croci (2009) fino a Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia (2016), una meditazione autobiografica terminale su sé stessa.
Nel 1978 lascia la Sardegna per insegnare Antropologia Culturale,
prima all’Istituto Orientale di Napoli e successivamente a La Sapienza
di Roma. Nel 1977 è curatrice dell’edizione postuma de La fine del
mondo, fondamentale opera che de Martino aveva lasciato interrotta e che
resta a tutt’oggi uno dei suoi lavori essenziali.
Internet
Dagli anni 90 in poi, inaugura nuovi campi di studio. È osservatrice
originale e critica della globalizzazione e dei mutamenti culturali che
essa arreca. È studiosa della diffusione del razzismo nell’immaginario
collettivo, delle reti relazionali connesse a internet, dei dibattiti
collegati ai conflitti dei simboli e, in modo particolare, all’impiego
pubblico della croce. Nel suo ultimo imponente libro, Incidenti di
percorso.
Antropologia di una malattia (2016), ha sfidato con forza,
lucidità e sarcasmo il viaggio più arduo per un essere umano: il viaggio
dentro sé stessi. Nell’intrico della propria psiche e della propria
anima; del proprio corpo malato, ma efficiente per serbare sempre nuovi
stupori e creazioni. Attualmente lo si può intuire come un lascito
spirituale, influenzato da una coerente e critica laicità, di una donna
che ha studiato ininterrottamente la religione. Riservata e modesta, la
Gallini è sempre stata distante dalla scena mass mediale e dai giochi
di potere accademici. L’inestricabile attività, immensa e composita, è
una sostanziosa eredità intellettuale che dovremmo accuratamente
studiare per comprendere fino in fondo la Nostra e far sì che non venga
mai dimenticata.
Morte e pianto rituale.
Un classico dell’antropologia italiana da riscoprire
Venerdì 21 maggio 2021
ore 16.00
Presentazione della nuova edizione del volume di Ernesto de Martino,
Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, a cura di Marcello Massenzio, Einaudi 2021.
Introduce Massimiliano Biscuso (IISF)
Intervengono
Carlo Ginzburg (UCLA)
Carlo Alberto Bonadies (Casa Editrice Einaudi)
Marcello Massenzio (Associazione Internazionale Ernesto de Martino)
Riccardo Di Donato (Università di Pisa)
Rivoluzioni culturali. Due importanti novità nella
attuale riedizione di «Morte e pianto rituale», che torna da Einaudi:
Marcello Massenzio nega l’appartenenza del saggio a una trilogia
meridionalista; e riconduce l’«Atlante figurato» al modello «Mnemosyne»
di Aby Warburg
di Fabio Dei, da Alias del 4 aprile 2021
Al culmine di una stagione che aveva fatto conoscere Ernesto de
Martino per le sue «spedizioni etnografiche» in Lucania e in Puglia e
per il suo pervicace impegno nel dibattito sulla questione meridionale,
l’uscita nel 1958 di Morte e pianto rituale Dal lamento funebre antico
al pianto di Maria (ora riedito da Einaudi, PBE, a cura di Marcello
Massenzio, pp. LXXVIII-374, € 29,00) si prestò a venire letto
soprattutto come uno studio sulla tradizione popolare del lamento
funebre nel Mezzogiorno d’Italia. E così lo si sarebbe considerato per
decenni, con ciò sottovalutando sia l’ampia ricerca storico-religiosa e
comparativa sia l’originale impianto teorico-filosofico che lo
sostengono. A breve distanza di tempo sarebbero apparse anche le altre
due monografie legate a quelle ricerche, Sud e magia (1959) e La terra
del rimorso (1961), tanto che venne naturale ai commentatori di allora
leggere quei volumi come una compatta «trilogia».
Quando Morte e pianto rituale vinse il premio Viareggio per la
saggistica, un commento ne descrisse l’autore come «il professore
bizzarro che parla con i morti». Non poteva darsi definizione più
infelice. L’allusione a una vena irrazionalista fraintende completamente
il senso del libro, che è invece una riflessione di amplissimo respiro
sulle strategie con cui la cultura umana lotta per dare continuità alla
vita, per allontanarsi dalle tombe e trascendere nel valore l’abisso
esistenziale spalancato dalla prospettiva della fine: dunque per tenersi
lontana dall’abbraccio della morte.
Lucania, terra del pianto Oggi ci è più chiaro
quanto de Martino faticasse a far comprendere il senso più profondo del
proprio lavoro, il lavoro di un vigoroso umanesimo storicista che
esplora i confini della ragione umana, spingendosi verso quelle soglie
in cui essa minaccia di perdersi, e – insieme al senso del sé –
smarrisce il senso del mondo. Lo scopo di questa esplorazione era
riconoscere gli strumenti sociali e culturali che fanno da argine al
caos, al dissolvimento dell’ordine del mondo e insieme della «presenza»,
vale a dire dell’autonomia esistenziale e della capacità di azione
«storica» dell’individuo. Ma il suo saggiare gli spazi liminali, il suo
esplorare gli inferi si prestava a venire scambiato per fascinazione
irrazionalista, e così venne interpretato anche dai principali indirizzi
della cultura italiana del tempo.
I crociani gli rimproveravano il rischio di storicizzare le
categorie, ovvero di relativizzare quell’unità del soggetto che è invece
la base universale e necessaria su cui ogni storia possibile si
articola; i marxisti apprezzavano l’impegno meridionalista di de
Martino, ma guardavano con un certo sospetto l’eccessiva attenzione alla
dimensione magica e arcaica del mondo contadino.
Certo, Morte e pianto rituale era anche un’etnografia della cultura
subalterna del Mezzogiorno. L’ampio capitolo sul lamento funebre lucano
gioca un ruolo cruciale nel libro, e certamente la documentazione
etnografica delle forme del lutto fra i contadini lucani e pugliesi,
soprattutto del pianto ritualizzato delle prefiche, era stato il punto
di partenza del percorso di de Martino.
Oltre il verbo La sua frequentazione
dell’etnografia gli consentiva di rendersi conto di aspetti delle
pratiche luttuose che non sarebbero potuti emergere dalla sola
documentazione storico-religiosa, sia scritta che iconografica: ad
esempio il tipo di partecipazione emotiva, le stereotipie dei movimenti
del corpo e delle modulazioni vocali delle lamentatrici, e al tempo
stesso la loro capacità di adattare i moduli tradizionali alle
situazioni specifiche, individualizzandoli e riportandone al loro
interno la storicità.
Erano questi i materiali dai quali de Martino traeva la parte più
ricca e innovativa della sua analisi, e che gli permisero di comprendere
come la logica della ritualità funebre poggi su un meccanismo mimetico:
le pratiche rituali imitano la caduta nella disperazione e nel furore
più totali, fingono di seguire il defunto e di non poterlo «lasciar
andare». E tuttavia questa caduta o discesa agli inferi è controllata:
la mediazione dei dispositivi mitico-rituali consente di tornare in
superficie, di riguadagnare l’ordine della vita collettiva e la
razionalità dell’agire cosciente.
Restituendo alla storia i soggetti che ne sono colpiti e minacciati,
questo dispositivo di destorificazione dell’evento luttuoso viene al
tempo stesso proiettato da de Martino sui documenti folklorici dell’area
mediterranea e quindi su quelli riguardanti le civiltà antiche e
classiche. Ne emerge – ed è il corpo principale dell’opera – uno
scenario culturale di grande ampiezza, fecondato teoricamente
dall’intuizione esistenzialista della crisi e del riscatto della
presenza minacciata dal vuoto della morte.
Infine, il libro approda all’incontro di questo scenario con la
visione cristiana del tempo e della morte – esemplificata dalle parole
di Agostino di fronte alla perdita della madre, parole dominate dalla
convinzione che solo di una morte apparente si tratta e le lacrime vanno
dunque trattenute. La prospettiva cristiana (la «nuova epoca» della
morte rispetto a quella «antica») avrebbe alla fin fine vinto, ma al
prezzo di riassorbire nelle proprie immagini e nei propri riti le
tecniche pagane di controllo e reintegrazione del patimento – come nella
figura «di compromesso» della Mater dolorosa, una figura fortemente
sincretica.
Originariamente uscito da Einaudi, Morte e pianto rituale torna alla
casa madre – dopo decenni di permanenza presso Bollati Boringhieri – in
una nuova edizione curata da Marcello Massenzio, la cui ampia e densa
introduzione propone almeno due importanti elementi di novità. Il primo è
l’accento posto sull’apparato iconografico che accompagna il libro,
sotto il titolo di «Atlante figurato del pianto».
De Martino accosta comparativamente immagini tratte dal folklore
mediterraneo, dalle culture antiche e da quelle cristiane in quelle che
non sono soltanto mere illustrazioni, ma materiali in cui emerge una
descrizione e una comprensione dei riti, nella loro materialità corporea
e gestuale, che sfuggirebbe alla pura verbalizzazione. Anche sulla
scorta di suggestioni che gli provengono da Riccardo Di Donato, Georges
Didi-Huberman e Carlo Ginzburg, Marcello Massenzio discute l’influenza
del modello Mnemosyne di Aby Warburg sull’Atlante di de Martino. Quanto
al secondo elemento della rottura interpretativa proposta da Massenzio,
esso risiede appunto nel negare che Morte e pianto rituale sia il primo
capitolo di una trilogia meridionalista. Se così lo si interpretò era
grazie al contesto di quella stagione culturale, che di de Martino amava
valorizzare il ruolo politico, da ricercatore di inchiesta e di
denuncia, accostandolo magari a Carlo Levi o a Rocco Scotellaro, senza
tuttavia comprendere il nucleo più profondo e unificante del suo
pensiero, né il nesso inestricabile che egli aveva costruito fra la
dimensione etnografica, quella storico-religiosa e quella filosofica.
Il mondo del possibile Ritrovare i fili di
questo intreccio, troppo spesso separati nella realtà parcellizzata e
settoriale della ricerca contemporanea, è forse uno degli scopi che
meglio può motivare oggi la rilettura di queste pagine. Insieme al fatto
che, come tutti i grandi classici, Morte e pianto racconta qualcosa che
ci riguarda nella sua intramontabile attualità: non tanto l’abisso
della morte o la dissoluzione della presenza in sé, quanto la lotta
infaticabile che la cultura conduce contro di esse per permetterci di
rinnovare la nostra appartenenza a un mondo possibile.
La riedizione del capolavoro demartiniano consente di riscoprire in tutta la sua complessità, al di là dell’interpretazione convenzionale che enfatizzava la portata della componente meridionalista, un impianto teorico eccezionale, frutto del concorso di molteplici saperi.
Il 17 settembre scorso è venuto a mancare George Saunders, Professore di Anthropologia presso la Lawrence University (Wisconsin, USA). È stato uno dei soci fondatori dell’Associazione Internazionale E. De Martino e tra i primi a imporre all’attenzione della comunità scientifica extra-europea l’opera di de Martino, posta al centro di saggi che ne illuminano lo spessore teorico e la metodologia della ricerca, alla luce del confronto con orientamente ermeneutici d’impostazione diversa. Oltre che studioso dell’antropologia italiana, fin dagli anni Settanta George Saunders ha scelto l’Italia come uno dei suoi terreni privilegiati di ricerca nell’ambito dell’antropologia religiosa. Dallo studio dei movimenti protestanti pentecostali in Toscana è scaturito un libro importante, rimasto allo stadio di manoscritto inedito fino al 2010, quando è stato pubblicato, grazie all’interesse mostrato dai suoi amici e colleghi italiani, e con il contributo dell’Associazione Internazionale E. De Martino: Il linguaggio dello spirito. Il cuore e la mente nel protestantesimo evangelico, Pacini Editore (traduzione di Adelina Talamonti). Nella Postfazione di Vincenzo Padiglione è delineato un pregevole ritratto scientifico e umano di G. Saunders, che con la sua “pedagogia del confronto” – per usare una locuzione di Clara Gallini – ha contribuito ad ampliare profondamente gli orizzonti della ricerca nel settore delle tradizioni antropologiche locali. I suoi scritti e taccuini di campo sono custoditi presso Smithsonian National Anthropological Archives (https://sova.si.edu/record/NAA.2006-09).
da Alias del 29/09/2019 (per gentile concessione di autore e editore)
Antropologia culturale. Una nuova selezione ragionata degli
scritti confluiti in «La fine del mondo», che analizza le strategie
rituali con cui le culture tradizionali tengono a bada la «crisi della
presenza»: da Einaudi
La magia, il pianto rituale, il tarantismo nel Mezzogiorno d’Italia
avevano fornito a Ernesto De Martino gli argomenti attraverso i quali
aveva acquisito una consistente notorietà, quando al momento della sua
prematura scomparsa, nel 1965, stava scrivendo il libro che sarebbe
stato titolato La fine del mondo. Dopo le ricerche sul campo
degli anni Cinquanta, l’antropologo napoletano era tornato a concepire
un’opera di vasto impianto comparativo e filosofico (come il suo
precedente Mondo magico), il cui tema investiva le diverse
rappresentazioni culturali dell’apocalisse – dalla crisi dell’universo
addomesticato al crollo del Cosmo ordinato a favore di un Caos irrelato.
Erano almeno tre gli aspetti di questa «crisi radicale» del mondo, che
interessavano De Martino. In primo luogo la sua declinazione
psichiatrica, vale a dire il modo in cui il crollo del mondo (assieme e
parallelamente al crollo del Sé) si manifesta nei vissuti
psicopatologici, come quelli della schizofrenia. Inoltre, la presenza
del tema dell’apocalisse nei riti e nei simboli religiosi delle antiche
civiltà e delle culture etnologiche e popolari, dove la dissoluzione
dell’ordine viene evocata nel contesto di una dinamica che ne contempla
il superamento e la reintegrazione. Dunque, la crisi viene configurata
solo per essere risolta all’interno dello stesso impianto rituale.
Una lunga storia editoriale
Nella successione sistematica di una spaventosa discesa agli inferi, poi
del ritorno in superficie, che riapre la presenza a un mondo ordinato e
domestico, De Martino coglie la chiave della «efficacia simbolica»
delle strategie con cui le culture tradizionali proteggono o
«guariscono» i loro membri dalla «crisi della presenza», vale a dire dal
rischio radicale del non esserci. E per finire, il tema dell’apocalisse
è ricercato da De Martino nelle diverse declinazioni della cultura
contemporanea, per esempio i grandi movimenti ideologici, come quelli
anticoloniali, marxisti e religiosi, nei quali il mutamento storico si
configura come il collasso di un vecchio mondo cui segue la nascita di
uno radicalmente nuovo. Ma anche le rappresentazioni della letteratura e
dell’arte contemporanea vengono contemplate, e le inquietudini
dell’immaginario di massa, ad esempio le fantasie di quello che si
chiamava allora l’«olocausto nucleare», in grado di concepire, per la
prima volta nella storia, la distruzione del mondo e dell’umanità nella
sua interezza.
La storia editoriale del libro è lunga. Al momento della morte, De
Martino aveva pubblicato sul tema solo alcuni brevi saggi, e raccolto
una gran quantità di appunti e stesure preliminari, ancora molto
frammentarie. Un gruppo di suoi colleghi e allievi, guidati dallo
storico delle religioni Angelo Brelich, propose alla Einaudi di curarne
la pubblicazione, ma il lavoro si rivelò molto difficile, tanto che il
gruppo dei curatori si sciolse e il libro finì per essere pubblicato più
di dieci anni dopo, nel 1977, con l’editing della sola Clara Gallini.
Edizione affascinante ma complicata: Gallini scelse di pubblicare
integralmente le cartelle di lavoro dell’autore, inclusive di schede e
appunti di lettura, e di varie stesure alternative degli stessi passi,
consententendoci così di entrare nel laboratorio dell’antropologo; ma,
al tempo stesso, produceva un libro di dimensioni eccessive e privo di
una chiara struttura saggistica e argomentativa. Da usare come
repertorio di suggestioni, certo, ma arduo per un pubblico non
specialistico o per l’uso universitario. Poi, qualche anno fa, due
studiosi francesi, Giordana Charuty e Daniel Fabre, insieme all’italiano
Marcello Massenzio, lavorando a una traduzione francese del libro,
pensarono di proporre una diversa selezione ragionata dei materiali.
Tornati all’archivio di De Martino, ripristinarono innanzi tutto
l’indice originario dell’autore, riorganizzando poi attorno ad esso i
testi, tagliando doppioni e ridondanze, e corredando il tutto di
apparati e commenti molto utili a ricostruire l’interna coerenza del
testo e i suoi legami con il complesso del pensiero demartiniano.
Il libro uscì in Francia nel 2016, a quasi quarant’anni dalla sua prima
apparizione, ed è appunto in questa edizione che Einaudi propone oggi in
italiano La fine del mondoContributo all’analisi delle apocalissi culturali
(a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, pp.
612, e 34,00). Per i lettori che non conoscevano ancora quest’opera, è
l’occasione per affrontarla in una forma decisamente più leggibile e
chiara della precedente; per gli altri – come nota lo stesso Massenzio
nella sua introduzione – la novità sta nella emergenza, ora più
compatta, dei principali nuclei teorici del pensiero di De Martino, che
erano andati inevitabilmente un po’ dispersi, nella prima edizione, in
mezzo al grande mare delle molte schede di lettura. In secondo luogo,
grazie anche agli apparati critici, è possibile storicizzare meglio il
testo, e comprenderne così il rilievo rispetto ai grandi indirizzi della
cultura europea del tempo.
Clara Gallini lo aveva interpretato, un po’ riduttivamente nel 1977, da
un lato come inspiegabile «ritorno a Croce», dall’altro come un riandare
ai temi dell’ontologia esistenzialista, in contrapposizione allo
storicismo marxista dominante in quegli anni. Oggi emerge invece con
maggior chiarezza l’originale e profonda sintesi teorica tentata da De
Martino – che non tradiva affatto lo storicismo ma gli conferiva semmai
maggior spessore innestandovi il tema della soggettivazione. Infine, ma
questo è un parere soggettivo, questa edizione lascia venire a galla
meglio la figura di un De Martino etnografo della società e della
cultura contemporanea. In tutte le sue opere precedenti, aveva messo a
fuoco la crisi della presenza e il suo riscatto o reintegrazione per
mezzo della cultura, riferendosi alla letteratura etnologica sui
«primitivi», poi al folklore magico-religioso delle «plebi rustiche del
Mezzogiorno», in ogni caso concentrandosi su società arcaiche o
premoderne. riscatto esistenziale e comunitario che è per lui la vera
costante della condizione umana.
La dinamica del riscatto Fine del mondo, invece, gli interessa soprattutto riferire il
dispositivo crisi-reintegrazione alla «modernità», a una cultura
secolarizzata in cui riti e simboli abbandonano il lessico e
l’immaginario tradizionale, senza tuttavia cessare di esistere e di
funzionare. Sta qui la intramontabile attualità del libro – il suo
rapporto, cioè, con una realtà globale sempre più pervasa dalla
percezione della «crisi» e dal terrore di prospettive apocalittiche
(economiche, ecologiche, demografiche, politiche), insieme alla sua
capacità di indurre domande fondamentali: in che modo le culture odierne
configurano simbolicamente il rischio di un crollo del nostro mondo e
della nostra presenza? Lontano da ogni nostalgia della tradizione, De
Martino ci invita piuttosto a scrutare fino in fondo le complessità del
mondo contemporaneo, facendo emergere anche in esso quella dinamica del
riscatto esistenziale e comunitario che è per lui la vera costante della
condizione umana.
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