Fabio Dei
da Alias del 29/09/2019 (per gentile concessione di autore e editore)
Antropologia culturale. Una nuova selezione ragionata degli
scritti confluiti in «La fine del mondo», che analizza le strategie
rituali con cui le culture tradizionali tengono a bada la «crisi della
presenza»: da Einaudi
La magia, il pianto rituale, il tarantismo nel Mezzogiorno d’Italia
avevano fornito a Ernesto De Martino gli argomenti attraverso i quali
aveva acquisito una consistente notorietà, quando al momento della sua
prematura scomparsa, nel 1965, stava scrivendo il libro che sarebbe
stato titolato La fine del mondo. Dopo le ricerche sul campo
degli anni Cinquanta, l’antropologo napoletano era tornato a concepire
un’opera di vasto impianto comparativo e filosofico (come il suo
precedente Mondo magico), il cui tema investiva le diverse
rappresentazioni culturali dell’apocalisse – dalla crisi dell’universo
addomesticato al crollo del Cosmo ordinato a favore di un Caos irrelato.
Erano almeno tre gli aspetti di questa «crisi radicale» del mondo, che
interessavano De Martino. In primo luogo la sua declinazione
psichiatrica, vale a dire il modo in cui il crollo del mondo (assieme e
parallelamente al crollo del Sé) si manifesta nei vissuti
psicopatologici, come quelli della schizofrenia. Inoltre, la presenza
del tema dell’apocalisse nei riti e nei simboli religiosi delle antiche
civiltà e delle culture etnologiche e popolari, dove la dissoluzione
dell’ordine viene evocata nel contesto di una dinamica che ne contempla
il superamento e la reintegrazione. Dunque, la crisi viene configurata
solo per essere risolta all’interno dello stesso impianto rituale.
Una lunga storia editoriale
Nella successione sistematica di una spaventosa discesa agli inferi, poi
del ritorno in superficie, che riapre la presenza a un mondo ordinato e
domestico, De Martino coglie la chiave della «efficacia simbolica»
delle strategie con cui le culture tradizionali proteggono o
«guariscono» i loro membri dalla «crisi della presenza», vale a dire dal
rischio radicale del non esserci. E per finire, il tema dell’apocalisse
è ricercato da De Martino nelle diverse declinazioni della cultura
contemporanea, per esempio i grandi movimenti ideologici, come quelli
anticoloniali, marxisti e religiosi, nei quali il mutamento storico si
configura come il collasso di un vecchio mondo cui segue la nascita di
uno radicalmente nuovo. Ma anche le rappresentazioni della letteratura e
dell’arte contemporanea vengono contemplate, e le inquietudini
dell’immaginario di massa, ad esempio le fantasie di quello che si
chiamava allora l’«olocausto nucleare», in grado di concepire, per la
prima volta nella storia, la distruzione del mondo e dell’umanità nella
sua interezza.
La storia editoriale del libro è lunga. Al momento della morte, De
Martino aveva pubblicato sul tema solo alcuni brevi saggi, e raccolto
una gran quantità di appunti e stesure preliminari, ancora molto
frammentarie. Un gruppo di suoi colleghi e allievi, guidati dallo
storico delle religioni Angelo Brelich, propose alla Einaudi di curarne
la pubblicazione, ma il lavoro si rivelò molto difficile, tanto che il
gruppo dei curatori si sciolse e il libro finì per essere pubblicato più
di dieci anni dopo, nel 1977, con l’editing della sola Clara Gallini.
Edizione affascinante ma complicata: Gallini scelse di pubblicare
integralmente le cartelle di lavoro dell’autore, inclusive di schede e
appunti di lettura, e di varie stesure alternative degli stessi passi,
consententendoci così di entrare nel laboratorio dell’antropologo; ma,
al tempo stesso, produceva un libro di dimensioni eccessive e privo di
una chiara struttura saggistica e argomentativa. Da usare come
repertorio di suggestioni, certo, ma arduo per un pubblico non
specialistico o per l’uso universitario. Poi, qualche anno fa, due
studiosi francesi, Giordana Charuty e Daniel Fabre, insieme all’italiano
Marcello Massenzio, lavorando a una traduzione francese del libro,
pensarono di proporre una diversa selezione ragionata dei materiali.
Tornati all’archivio di De Martino, ripristinarono innanzi tutto
l’indice originario dell’autore, riorganizzando poi attorno ad esso i
testi, tagliando doppioni e ridondanze, e corredando il tutto di
apparati e commenti molto utili a ricostruire l’interna coerenza del
testo e i suoi legami con il complesso del pensiero demartiniano.
Il libro uscì in Francia nel 2016, a quasi quarant’anni dalla sua prima
apparizione, ed è appunto in questa edizione che Einaudi propone oggi in
italiano La fine del mondo Contributo all’analisi delle apocalissi culturali
(a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, pp.
612, e 34,00). Per i lettori che non conoscevano ancora quest’opera, è
l’occasione per affrontarla in una forma decisamente più leggibile e
chiara della precedente; per gli altri – come nota lo stesso Massenzio
nella sua introduzione – la novità sta nella emergenza, ora più
compatta, dei principali nuclei teorici del pensiero di De Martino, che
erano andati inevitabilmente un po’ dispersi, nella prima edizione, in
mezzo al grande mare delle molte schede di lettura. In secondo luogo,
grazie anche agli apparati critici, è possibile storicizzare meglio il
testo, e comprenderne così il rilievo rispetto ai grandi indirizzi della
cultura europea del tempo.
Clara Gallini lo aveva interpretato, un po’ riduttivamente nel 1977, da
un lato come inspiegabile «ritorno a Croce», dall’altro come un riandare
ai temi dell’ontologia esistenzialista, in contrapposizione allo
storicismo marxista dominante in quegli anni. Oggi emerge invece con
maggior chiarezza l’originale e profonda sintesi teorica tentata da De
Martino – che non tradiva affatto lo storicismo ma gli conferiva semmai
maggior spessore innestandovi il tema della soggettivazione. Infine, ma
questo è un parere soggettivo, questa edizione lascia venire a galla
meglio la figura di un De Martino etnografo della società e della
cultura contemporanea. In tutte le sue opere precedenti, aveva messo a
fuoco la crisi della presenza e il suo riscatto o reintegrazione per
mezzo della cultura, riferendosi alla letteratura etnologica sui
«primitivi», poi al folklore magico-religioso delle «plebi rustiche del
Mezzogiorno», in ogni caso concentrandosi su società arcaiche o
premoderne. riscatto esistenziale e comunitario che è per lui la vera
costante della condizione umana.
La dinamica del riscatto
Fine del mondo, invece, gli interessa soprattutto riferire il
dispositivo crisi-reintegrazione alla «modernità», a una cultura
secolarizzata in cui riti e simboli abbandonano il lessico e
l’immaginario tradizionale, senza tuttavia cessare di esistere e di
funzionare. Sta qui la intramontabile attualità del libro – il suo
rapporto, cioè, con una realtà globale sempre più pervasa dalla
percezione della «crisi» e dal terrore di prospettive apocalittiche
(economiche, ecologiche, demografiche, politiche), insieme alla sua
capacità di indurre domande fondamentali: in che modo le culture odierne
configurano simbolicamente il rischio di un crollo del nostro mondo e
della nostra presenza? Lontano da ogni nostalgia della tradizione, De
Martino ci invita piuttosto a scrutare fino in fondo le complessità del
mondo contemporaneo, facendo emergere anche in esso quella dinamica del
riscatto esistenziale e comunitario che è per lui la vera costante della
condizione umana.
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